Il senso di Roger Waters per la rabbia.
Roger
Waters ha 75 anni. E’ multimilionario. Tutti conoscono la sua storia, chiunque
abbia mai ascoltato il rock sa chi sia, che cosa ha fatto e perché. Sa, ad
esempio, che The Wall è stato
ispirato da uno sputo. Sì, uno sputo. Si era a Montreal, Canada, nel ’77.
Chiunque abbia mai letto qualcosa di musica moderna sa che Dark Side of the Moon è in gran parte opera sua, almeno dal punto
di vista concettuale. Sa anche che un album novembrino, brumoso e splendente
come Wish You Were Here è stato
concepito come omaggio a un vecchio amico e suonato per lui. Roger Waters ha 75
anni, potrebbe – e forse l’ha già fatto – comprarsi un Gulfstream (come canta nel suo ultimo disco) o un Lear jet d’epoca (come diceva già in Money, e si era nel ’73: dev’essere una
fissazione, la sua), che poi sarebbero dei comodi e costosi aerei privati, e
sollazzarsi su un’isola sperduta anch’essa comprata in contanti. Ma perché non
lo fa? Perché non se ne va in pensione?
* * *
Roger
Waters ha avuto 30 anni, e in quell’età era completamente immerso nella sua
vita di trentenne, nel mondo della sua epoca, e a 30 anni ha scritto canzoni
come Us and Them o Money, canzoni partorite dalla sua età e
calate nella sua realtà del tempo, canzoni che non erano state concepite per
cambiare il mondo e infatti non l’hanno cambiato, o forse in minima parte sì.
Roger Waters, come chiunque abbia avuto 32 anni, li ha avuti anche lui, e si
era nel ’75. Ed era sempre lì a scrivere le sue canzoni, stavolta più cupe
sebbene un pelo più mature, più malinconiche e già dotate di un profondo e
primigenio germe di disfatta.
* * *
Nel
’77 io avevo 5 anni e non avevo fatto un solo giorno di scuola, la scuola non
sapevo nemmeno cosa fosse e lei se ne stava in agguato a ridersela beffarda,
che tanto sarebbe arrivato anche il mio turno, e intanto lui, Roger Waters, che
di anni ne aveva 34, girava il mondo, forse con il suo Lear e forse no, e
scriveva le sue canzoni con piglio orwelliano, sempre più cinico e introverso,
sempre più arrabbiato, e non conta nulla che nel frattempo fosse esploso il
fenomeno punk, i Sex Pistols con
Johnny Rotten e Sid Vicious e tutta quella roba lì, lui, Waters, era arrabbiato
di suo, e a ben vedere la sua rabbia era ben più furente e pericolosa di quella
di quattro ragazzotti che si atteggiano a ribelli e che in capo a qualche anno
già si sono liquefatti, lui no, la sua è una rabbia antica e che andrà lontano,
una rabbia antica e moderna nel contempo, e tutti quelli che masticano un
minimo di rock sanno che il fantasma del padre di Roger è l’ispiratore, direi
il ghostwriter se non temessi di
essere blasfemo, di molte delle sue opere, oltre che della sua proverbiale
rabbia. Così se ne va in giro per il mondo e ce l’ha a morte coi maiali che
sono una sciarada, coi cani che pugnalano gli amici alle spalle e con le pecore
appese all’uncino come cotolette da un pastore che decanta il Salmo, e girando
il pianeta finisce per imbattersi in quel famoso sputo di Montreal, si era nel ’77,
a un concerto, e per meglio dire è proprio lui, Waters, che sputa in faccia a
un tizio che si dimena sotto il palco e che dovrebbe ascoltarlo suonare in
religioso deliquio piuttosto che fare il casino che fa, e allora lui, Waters,
gli sputa imbestialito, e quello sputo, che in sé è un gesto persino volgare e disgustoso,
cambia un poco l’asse di rotazione della musica, perché in Waters anche un villico
bolo di saliva non cade invano, è come la mela di Newton, tutto si trasforma,
come in quelle ascetiche religioni d’oriente che t’insegnano che tutto è in
divenire e tutto si reincarna, e tu credi e sogni che un giorno potrai essere
una betulla o una scarpa da trekking, o qualsiasi cosa ti aggradi, persino il
Fender Precision di Roger Waters, nella più rosea delle aspettative. Dalla
crisalide di quel bolo salivare sorse l’immaturo bruco di una idea che dopo una
breve gestazione si tramutò in quella meravigliosa farfalla sonora che è The Wall, e siamo nel ’79, Roger Waters
ha 35 anni e pur superando il mezzo del cammin di sua vita è sempre lì a
scrivere le sue canzoni, sempre incazzato col mondo intero ma stavolta quasi
più con se stesso, perché in fondo è con se stesso che fa i conti, lava i suoi
panni sporchi in faccia al mondo e nella tinozza ci mette tutto, senza farsi
sconti, senza indulgenze: la mamma, la moglie, il padre, le donne, le droghe, l’infanzia
e la rabbia, sì, sempre quella sua rabbia dolente, e racconta nei solchi del
vinile la storia di tutti noi, ognuno di noi può specchiarsi nel suo specchio e
ritrovarci la propria vecchia faccia. Una immensa cattedrale sonora sorta da
uno sputo: questo, signori, è Roger Waters, per chi non lo sapesse.
* * *
Nel
lontano ’83 io ero ormai alle medie e sgobbavo pur di essere sempre il primo
della classe, e anche se sedevo all’ultimo banco, abitudine che non ho mai
perso, credetemi, ci riuscivo sempre, a essere il primo, dico, inutile
nascondersi dietro l’esile dito della falsa modestia ché, tanto, poi si sa che
le cose false vengono scoperte ed è peggio, e intanto Waters, perennemente
imbestialito, arrogante come pochi, se ne sta lì a scrivere le sue canzoni e stavolta
ce l’ha con la guerra, la stramaledetta guerra che gli ha portato via il padre
e che ha dato origine a tutti i suoi incubi e alle sue ossessioni e, diciamolo,
alle nostre beatitudini, poiché senza quella tragedia personale chissà se uno
come Waters sarebbe davvero esistito, magari avrebbe fatto il pacifico
fattorino o il professore di matematica con sei figli a carico, un anonimo
borghese della middleclass
britannica, sono dilemmi insolubili di cui non conosceremo mai la risposta, e
dopotutto è meglio non farsi troppe domande.
Chiunque
conosca la musica rock sa che ormai Roger Waters, a quel punto, è un uomo
troppo lacerato dai suoi conflitti, troppo arrabbiato per continuare a rimanere
nella stessa barca di altri, persino i suoi colleghi e fedeli compagni sono di
troppo, sente che è ora di andare in guerra da solo e affrontare a viso aperto
e a muso duro i suoi fantasmi, gli spettri che vede lui solo e che per gli
altri sono follie, ossessioni malate degne di approfondimento psichiatrico. E
così Roger Waters imbocca la sua strada solitaria che per molti è un mesto
viale del tramonto lastricato di rimorsi, buona fortuna a tutti e addio, a mai
più rivederci, cari ragazzi, vediamo cosa sapete fare da soli. E gli altri, i
suoi compagni abbandonati alla deriva, i naufraghi, mica gliela danno vinta,
anzi, si rimboccano le maniche e per davvero vanno avanti da soli, senza il
patriarca, senza l’eminenza grigia, e ci riescono, fanno dischi nuovi, nuovi
spettacoli, ma la rabbia se l’è tenuta lui, Roger Waters, la rabbia è sua e se
l’è portata via, come presumo facesse da piccolo col pallone quando lo facevano
incazzare, mica te la puoi inventare, la rabbia, non è che ti svegli una
mattina e ti inventi un padre crepato in guerra e da un giorno all’altro ti scopri
incapace di adattarti al mondo, sono cose che devi nascerci, e lui quelle cose
ce le aveva e se l’è portate con sé, e buonanotte ai suonatori, è il caso di
dirlo.
* * *
E
siamo al ’92 e io sono già all’università, vedete come passa il tempo, vent’anni
in due pagine e potevo essere persino più sintetico, sui banchi dove passarono
Dante e Copernico e Keplero a rimpiangere l’infanzia e la patria perduta e i
campi di grano maturo, che nella mia mente incline al verso erano messi feconde
anche se si era in dicembre, a divincolarmi dalle nebbie di una città opulenta
ma a latitudini troppo settentrionali per i miei gusti, e a provare i primi
strani turbamenti a sfondo giuridico, e lui, Roger Waters, immarcescibile, 49
anni fatti, è sempre lì a scrivere le sue canzoni. La rabbia, la famigerata
rabbia, sembra in parte sbollita o forse, chi può saperlo, s’è rintanata in
qualche anfratto come fanno quelle fiere ferite che poi aspettano solo di
rimettersi in piedi per tornare a vendicarsi, ma insomma, l’età avanza, e la si
può dosare con maggiore sapienza, ed essa fa capolino qui e là nelle splendide
canzoni nuove di zecca che sembrano tanto un messaggio indirizzato ai suoi
vecchi sodali, del tipo avete visto, provatevi voi a fare qualcosa di simile, e
che ricordano all’orbe terracqueo chi sia quel tizio, quell’antipatico lunatico
sull’erba di cui lui stesso cantava tre decadi orsono in Eclipse, il lunatico
che solo tre anni prima ha suonato il suo Muro sulle macerie del muro vero,
quello di Berlino appena raso al suolo.
* * *
Ah,
se la storia si potesse scrivere con le canzoni!, hanno sospirato con aria
sognante il novantanove percento dei musicisti rock nei momenti di sconforto, e
lui, Roger Waters, è nella ristretta cerchia, nello striminzito un percento di
quelli che per davvero un briciolo di storia l’hanno scritto con le canzoni, lui,
Dylan e pochissimi altri, li puoi contare su una mano.
* * *
E
poi lui, Roger Waters, sparisce dai radar. E passano venticinque anni, cinque
lustri, un quarto di secolo: un’eternità. Lo intravedi, di tanto in tanto, un
tour, una intervista, e ogni volta è contro qualcosa o qualcuno, contro la
caccia alla volpe, contro Israele, contro i Radiohead che vanno a suonare in
Israele e non dovrebbero, ma come si permettono questi giovinastri, e ti dici
calmati Roger, che diamine, goditi la vita, fatti una vacanza, e lui quasi ti ascolta
e si fa una rimpatriata coi vecchi amici-nemici e non ti sembra vero di
rivederli insieme per l’ultima volta, ci scappa pure la lacrima a dirla tutta,
quattro vecchietti anonimi e innocui che più che su un palco mostruoso, davanti
a un milione di scalmanati, te li vedresti giocare a tressette a perdere con le
camicie da boscaiolo, il bicchiere di Peroni sul tavolo e un cane macilento che
dorme arrotolato tra i mozziconi. E però: dov’è finita, la sua rabbia?, ti
chiedi intanto che sfrecciano gli anni, e a ogni giro di boa i fasti del
passato rimpiccioliscono all’orizzonte, la tonalità sbiadisce verso il seppia e
tu passi indenne in mezzo alla vita e ai suoi tranelli, agli scherzi da caserma
che ti gioca il destino, agli amori, alle sconfitte, ai commiati, alle gioie e
ai tracolli, e finisce che ti ritrovi sul limite della mezza età, quella
soffice mezza età alcolica, come lui stesso, Roger Waters, cantava mirabilmente
nell’ultimo disco davvero incazzato che io ricordi.
* * *
E
ora, e torniamo all’inizio, Roger Waters ha 75 anni e potrebbe essere il mio
vecchio e saggio padre, e per qualcuno lo è davvero ma non so se invidiarlo,
quel qualcuno, e magari è anche nonno, ma un nonno così è meglio tenerselo
buono che non si sa mai che cosa possa combinare. E infatti. Dopo venticinque
anni, e siamo al 2017, e abbiamo cambiato millennio oltre che secolo, esce il
suo nuovo disco. E io non l’ho comprato. Già. Non ho voluto comprarlo perché
avevo paura. Avevo paura di scoprire che il tempo era passato sul serio, e
soprattutto che il tempo, quando passa, fa danni, è un fiume indocile che
dietro di sé lascia argini rotti, relitti e fasciame, gomene spezzate, argani
divelti, vele lacere, cadaveri rigonfi d’annegati che galleggiano come turaccioli
inservibili. Avevo paura di guardarlo in faccia, quel tempo, paura di guardare
in faccia lui, Roger Waters, e nella sua vedere la mia, rughe e quieta
disperazione, come lui scriveva in Time, per l’appunto il tempo, cinquant’anni
fa, come fosse niente. Avevo paura di scoprire che la rabbia era andata,
svanita, dissolta, e che in quell’anfratto avrei trovato uno scheletro, e che
persino gli imperi più potenti finiscono in polvere, e che nessuno, neppure il
più leggendario condottiero, si ricorda delle battaglie vinte e delle lustre
medaglie quando è disteso sul letto di morte. Avevo paura di scoprire che la
vita non la puoi sfidare impunemente e che persino un indomito come lui,
vecchio guerriero d’Albione, Ruggiero Acque, deve infine chinare il capo e
deporre le armi.
* * *
E
poi. E poi un giorno faccio una chiacchierata con un vecchio amico e il
discorso finisce su di lui, sul citato Ruggiero, e lui – il mio amico,
beninteso – mi dice hai preso l’ultimo di Waters e io rispondo no, non l’ho
preso, ma ometto di confessare che non l’ho preso perché non avevo intenzione
di assistere icto oculi al
disfacimento di un ideale, al rovinoso crollo di un’epoca intera. Poi capita
che il tarlo s’insedia e si mette a fare il suo onesto lavoro, che è quello di
scavare perfidamente, e alla fine il disco lo prendo e lo ascolto, e a ogni repeat non manco di tirare un sospiro di
sollievo, e il primo pensiero coerente che mi si coagula in mente è eccolo lì,
il vecchio leone, questa è la sua zampata. Scopro con soddisfazione che la
vecchia rabbia – quella dei bei tempi andati ma non solo, una rabbia più
adulta, più tagliente, più severa – è al suo posto di sempre, solida come un
monolite di ossidiana che ha l’arcano potere di ammonire con la sua sola
presenza. Scopro che Roger Waters, a 75 anni, non si sogna nemmeno di fare il
nonno, o non solo quello, né di passare la vecchiaia in vestaglia e pantofole o
al parco a lanciare molliche ai piccioni, anzi, è un uomo completamente calato
nella realtà del mondo, il nostro stesso sporco mondo, allo stesso modo in cui
lo era a 30 o 50 anni, solo che allora dileggiava Nixon e la Thatcher e oggi
sbeffeggia Trump. Scopro che Roger Waters, a 75 anni, è di parecchio più
giovane, curioso e vitale di tutte le torme dei giovanotti – veri o presunti –
che infestano ogni stanza virtuale di questo pianeta e si rimbecilliscono da
mane a sera con i nuovi oppiacei digitali che spacciano per l’unico progresso
possibile. Scopro che, fermi restando i suoi fantasmi e le sue fantastiche
angosce, e naturalmente l’ineliminabile rabbia congenita, Roger Waters è un
uomo in costante evoluzione. Nel suo nuovo lavoro non troverete The Wall, né Dark Side of the Moon né Animals,
ma troverete tutto questo insieme, tutto amalgamato in una malta
caratteristica, riconoscibile e nuovissima, saggezza della tradizione e coraggio
della sperimentazione insieme: non è forse questo il marchio di fabbrica di
questo irriducibile englishman a New
York? Troverete echi di The Piper at the
Gates of Dawn (1967) alternati ad atmosfere alla Animals (1977), suoni di The
Wall (1979) e temi di The Final Cut
(1983), nell’elegantissima, e minimal, summa di una intera carriera, di una
intera esistenza, e scoprirete che la versione aggiornata di Wish You Were Here (la canzone) è una
rancorosa e frustrata Wish You Were Here
in Guantanamo Bay (Vorrei che tu
fossi qui, a Guantanamo). Scoprirete qual era la fonte e l’origine della
magia dei Pink Floyd, chi ne reggeva il timone e perché, e vi ritroverete
vostro malgrado a ridimensionare lo zio David, con tutto il rispetto e l’amore
per lui. Scoprirete che Roger Waters è vivo come poche volte in vita sua,
rabbioso come poche altre volte, e che tutto questo è un bene, perché se un
artista non fa questo, non fa sentire la sua voce, e il suo pensiero forte e
chiaro, che razza di artista è? Scoprirete, come ho fatto io, che è una fortuna
essere contemporanei di gente così e respirare la stessa aria e vivere gli
stessi giorni, nello stesso mondo. Un giorno, chissà, potrò raccontarlo ai miei
nipoti, come si faceva una volta, e come farebbe anche lui, Roger Waters, se
fosse meno arrabbiato, magari davanti al fuoco, in una serata da lupi, e potrò
dire loro sapete, c’era una volta un signore molto arrabbiato…
O dolore, o dolore! Il tempo divora la vita e l'oscuro nemico che ci divora il cuore cresce e si rafforza col sangue che perdiamo.
RispondiEliminaBellissimo, Rocco.
Grazie, caro Mario.
EliminaArticolo fantastico. Complimenti
RispondiEliminaGrazie!
RispondiEliminaArticolo coinvolgente, bravissimo.
RispondiElimina"If I have been God.." no, lui è davvero Dio
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
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