Jim Morrison, il cantante mancato dei Pink Floyd.
Ieri è stato un giorno funesto
per il cinema italiano e per l’arte in generale: è morto Bernardo Bertolucci,
un regista che per la sua fama è diventato un monumento internazionale, un mito
vivente che ha rappresentato la cinematografia italiana nel mondo al pari di
Fellini, Visconti, Antonioni, Rossellini, De Sica e tanti altri maestri, nomi
di un empireo davvero affollato. Beh, ma io non scrivo molto di cinema, sebbene
ne apprezzi le potenzialità comunicative. Diciamo che la notizia mi ha
scatenato uno strano prurito dietro la nuca, e vi assicuro che non si tratta di
sgradevoli ospiti zampettanti nella mia diradata foresta di cheratina. Oh, no.
C’è qualcos’altro. Il tarlo – e dagli con gli insetti – della curiosità.
Vediamo di analizzare. A quale film si pensa se si cita Bertolucci? C’è l’imbarazzo
della scelta: Novecento, Il tè nel deserto, L’ultimo imperatore, Il piccolo
Buddha. A me viene in mente Ultimo tango a Parigi. E perché? Perché è uno dei
suoi film più celebri e controversi, perché vi recitano un titano come Marlon
Brando e una espressiva Maria Schneider, e perché la sua sceneggiatura fu
scritta a Parigi nel 1971. Capito? Parigi, 1971. Vi dicono niente questi due
dati? Bene. Ecco che il prurito comincia a disvelare la sua origine occulta.
Parigi, 1971. Ma facciamo un salto indietro.
Sabato 12 dicembre 1970. New
Orleans, Louisiana. Sul palco i Doors tengono l’ultimo concerto della loro
storia. Si consuma in diretta il dramma umano, prima che artistico, del
cantante Jim Morrison: nel bel mezzo dell’esibizione crolla sul palco e
incapace di cantare, né di fare alcunché, abbatte l’asta del microfono sul
legno dell’impiantito fino a romperlo (è ancora lì, custodito come una
reliquia). Il pubblico è ammutolito, la sua voce lo sarà ancora di più. Nella primavera
del 1971 Jim lascia gli Stati Uniti e va a Parigi per quella che deve essere
una vacanza di rigenerazione, magari di rinascita. Non tornerà mai più
indietro. A fine aprile viene pubblicato l’ultimo disco dei Doors, L.A. Woman.
E dunque? Ah, già: Parigi, 1971.
Eccoci qua. Nell’estate del 1971 a Parigi c’è Bernardo Bertolucci che abita a casa
di una regista francese, Agnes Varda, con la quale sta scrivendo la
sceneggiatura del suo prossimo film, Ultimo tango a Parigi. La Varda era un’amica
di Morrison, fin dai tempi in cui l‘aveva conosciuto durante un suo soggiorno
californiano. La mattina presto del 3 luglio 1971 il telefono di casa sua
squillò. All’altro capo del filo c’era un’agitatissima Pamela Courson, la
moglie di Morrison, che invocava aiuto: Jim era privo di sensi. Agnes Varda
lasciò un biglietto per Bertolucci, per spiegargli dove stesse andando, e
insieme a Alan Ronay si precipitò nella casa del Marais che Morrison aveva
affittato, al 17 di Rue de Beautreillis. Il resto è un inestricabile
guazzabuglio di storia e leggenda. All’arrivo della Varda Jim Morrison era già
morto da un paio d’ore. Ci fu un gran trambusto, e pare che una delle
preoccupazioni più grosse fosse quella di far sparire ogni traccia dell’eroina
che (e non lo sapremo mai) aveva forse provocato la morte di Jim. Si trattava
di una nuova variante di provenienza cinese, molto pesante, dal nome romantico
e – come vedremo – particolarmente emblematico: Pink, la “rosa”. La scena finale
di Ultimo tango a Parigi, quella in cui la protagonista femminile parla del suo
amante morto con tono allucinato, con ogni probabilità è ispirata alla scena
cui Agnes Varda assistette quella famosa mattina a casa di Jim Morrison.
Bernardo Bertolucci fu una delle
prime persone al mondo a sapere della misteriosa morte del cantante americano. E
in qualche maniera la storia personale di questi due individui si incrociò
proprio nel momento storico in cui ciascuno di essi aveva avuto modo di
apprezzare il lavoro di una band inglese emergente: i Pink Floyd. Nel 1970, l’anno
prima, era uscito Atom Heart Mother e i canoni tradizionali della musica
psichedelica (che ora si cominciava a definire progressive) avrebbero dovuto essere aggiornati. Il nuovo disco dei
Pink Floyd era sperimentale quanto il precedente Ummagumma ma, se possibile,
ancora più innovativo. La lunga suite
che gli dava il titolo era un articolato flusso di micro-opere sovrapposte e
tenute insieme da un filo conduttore sinfonico di carattere epico, sulla scia
di quanto avevano appena sperimentato i Deep Purple con il loro Concerto for
Group and Orchestra. La copertina mostrava un imperturbabile esemplare di mucca
frisona immortalata su un verde prato inglese, salita agli altari delle
cronache come Lulubelle III e il cui proprietario si batté in seguito – senza successo
– per ottenere i diritti d’autore che dovevano essere riconosciuti al suo
fotogenico quadrupede. E per la prima volta, in copertina non c’era il nome
della band. Dicono che ai dirigenti della Emi si rizzassero i capelli in testa
quando gli fu mostrata la bozza dell’artwork dell’album. E tuttavia fecero bene
a cedere, come la storia dimostrò in seguito.
Ma cosa c’entra Bernardo
Bertolucci con i Pink Floyd e Atom Heart Mother? Non molto, in realtà, salvo
che il regista volle fare un piccolo omaggio a quel disco inquadrandone la
copertina quasi in primo piano tra i protagonisti di una scena di Tragedia di
un uomo ridicolo, film del 1981 con Ugo Tognazzi. Forse il ricordo di una
stagione irripetibile, che era appunto quella che precedette quel fatidico
1971.
E cosa c’entra Jim Morrison con
Atom Heart Mother e i Pink Floyd? È noto quanto il cantante amasse la musica
blues, il soul di Otis Redding (al quale dedicò una canzone di The Soft
Parade), il rock and roll vibrante di Elvis Presley (dal quale mutuò l’impostazione
vocale) e l’ardente elettricità delle composizioni hendrixiane. Ma non tutti
sanno che Morrison ammirava e amava i Pink Floyd. Già, proprio loro.
Nell’agosto del 1970, dopo una
delle udienze del celebre processo a suo carico in corso a Miami, che
probabilmente fu l’inizio della personale discesa all’inferno di Morrison, uno
studente di medicina (tale Steve Rosenberg) riuscì ad avvicinare il cantante e
a scambiare quattro chiacchiere con lui. Parlarono di poesia, di Rimbaud, e poi
Rosenberg gli chiese che genere di musica gli piacesse ascoltare. Jim non ebbe
dubbi. “I really like Pink Floyd” fu la sua risposta. Tanto che il mese prima,
il 18 luglio 1970, era tra il pubblico di Hyde Park dove i Pink Floyd tennero
un memorabile concerto in cui, accompagnati dall’orchestra, eseguirono
integralmente Atom Heart Mother, all’epoca ancora inedita.
Come vedete i fili di questa
matassa, sebbene esili e tortuosi, si sono ricomposti. Insospettabilmente Jim
Morrison era un fan dei Pink Floyd e probabilmente, al pari di molti suoi
colleghi registi, lo era anche Bertolucci. E l’ironia della sorte fece
incontrare di striscio i loro destini in una calda mattina dell’estate
parigina.
Post scriptum. Il titolo di questa nota è chiaramente una
provocazione. Forse Jim Morrison non avrebbe mai potuto essere il cantante
solista di una band “plurale” come i Pink Floyd. Eppure è stimolante provare a
immaginarselo. E per finire altre due curiosità.
La prima. A Hide Park, dove Jim
seguì il concerto di cui si è detto, l’anno prima avevano suonato i Rolling Stones
per commemorare il loro compagno Brian Jones, morto annegato nella sua piscina
in circostanze mai chiarite. Il decesso avvenne il 3 luglio 1969, lo stesso
giorno in cui Jim sarebbe morto due anni dopo. E lo stesso Jim, in quell’occasione,
aveva composto e pubblicato una lunga poesia dedicata alla morte di Brian
Jones.
La seconda. Ricordate il nome
dell’eroina che, si dice, sia stata la causa della sua morte?
Ecco un'altra coincidenza, che svelo con una domanda: quale grande appassionato di Pink Floyd e Doors ha a che fare col 1971 dato che in quell'anno venne concepito...? 😉😁
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