IL GIORNO IN CUI MORIRONO I PINK FLOYD



Schiere di critici e di semplici appassionati si sono da sempre posti una domanda (che continuerà a riecheggiare anche nel futuro, nonostante questo articolo): quando sono finiti davvero i Pink Floyd? Una domanda alla quale ognuno ha dato la sua risposta: c’è chi sostiene che la fine della band sia arrivata appena dopo The Wall e chi propende per la conclusione plasticamente rappresentata, anche a livello semantico, da The Final Cut. Alcuni puristi si azzardano nella periclitante tesi della fine prematura, che vede nella pubblicazione di The Dark Side of the Moon la morte dei veri Pink Floyd, quelli giocosamente psichedelici inaugurati da Barrett. Altri, decisamente i più ingenui, s’aggrappano alla discografia ufficiale e rimandano la fine all’ultimo disco pubblicato (che per i più intransigenti di questa categoria è The Endless River, per i più democratici è The Division Bell). In questa selva di opinioni poteva mai mancare la mia? Certo che no. E non solo non poteva mancare, ma io vi fornisco addirittura una data, una data precisa. Avete udito bene. Io conosco la data precisa in cui i Pink Floyd hanno chiuso per sempre con la loro leggenda. La data non ufficiale (ma certa) della loro morte. Rullino i tamburi.



15 settembre 2008. Vi dice niente quel giorno infausto? È appunto la ricorrenza della fine dei Pink Floyd, la data che tutti i floydiani del mondo dovrebbero celebrare ogni anno come la Festa della Rimembranza. Quel triste giorno, in punta di piedi come si addiceva al suo carattere, se ne andò da questo mondo il signor Richard Wright, e con la sua dipartita si azzerò ogni possibilità di rivedere insieme i Pink Floyd. Certo la band era morta molto tempo prima, e ciascuno a proprio modo aveva la risposta giusta: i Pink Floyd erano morti dopo The Wall, o dopo The Final Cut, o addirittura prima di The Dark Side. Non ha molta importanza, ad ogni modo. I Pink Floyd erano già defunti, e ciononostante sopravviveva la fiammella della speranza di una reunion, il sogno impossibile di rivederli insieme. Dopotutto era accaduto davvero solo tre anni prima di quel fatale 2008, quando i nostri eroi si erano ritrovati sullo stesso palco davanti a milioni di occhi increduli, quattro attempati musicisti apparentemente felici e dimentichi degli acciacchi non meno che dei vecchi rancori. La morte di Wright, invece, fu la pietra tombale. Addio sogni. Addio speranze. Addio Sogno-Chiamato-Pink-Floyd.



Remember a day, a day before today, a day when we were young?(Ricordi un giorno, un giorno passato, un giorno in cui eravamo giovani?). Quanti di noi non hanno avvertito un brivido di rimpianto quando, nelle mille vicissitudini della vita, ci è capitato di riascoltare questo brano? Quella specie di delicata e nostalgica invocazione ai tempi andati e inesorabilmente perduti? Remember a Day è un esempio del carattere del suo creatore, quel Richard Wright (per gli amici Rick) che fu il secondo dei Floyd, dopo Syd Barrett, a transitare sul lato oscuro della luna.
Wright fu un gentile, estremamente britannico, quieto innovatore delle tastiere. Dotato di una solida preparazione classica, e di un innato talento jazzistico, si dedicò al rock quasi per caso in compagnia dei suoi compagni di college: a chi di noi non è capitato di coltivare il sogno della musica con una band riunita in locali di fortuna? Proprio per questo egli (al pari dei suoi compagni di avventura) rappresenta il trionfo della normalità, della regola sempiterna del capitare al posto giusto nel momento giusto, la dimostrazione che nella vita si realizzano talvolta, e sul serio, le leggendarie congiunture astrali che hanno il potere di cambiare le esistenze.

Wright non era affatto un virtuoso. Chi l’ascolta non troverà mai le scale vertiginose che gente come Jon Lord o Ray Manzarek o Keith Emerson percorrevano a rotta di collo, come su un immaginario skateboard strumentale. Lo stile di Wright era essenziale al punto da rasentare l’anonimato. Incarnava la quintessenza del “giusto suono” assunta dai Pink Floyd a regola artistica, dopo qualche eccesso iniziale che potremmo quasi addebitare ai normali sbalzi ormonali dovuti alla crescita. Tale regola è l’emblema della semplicità e consiste in ciò: se puoi suonare quattro note, suonane soltanto tre (e se poi riesci a suonarne solo due, tanto meglio). Il corollario di questa regola, austera e monastica, è che quella nota risparmiata, quella nota non suonata, paradossalmente suona straordinariamente bene nel suo contesto di pausa, di silenzio. Il silenzio vale ad amplificare il resto del suono. Una regola, questa, la cui applicazione è molto più difficile di quanto sembri, e che altri gruppi, a dispetto della fama planetaria, non avrebbero mai potuto né saputo rispettare.

Wright ha in sé, e ne parlo al presente senza tema di refuso, nel suo modo di essere e in quello di suonare, il mood inglese, l’atteggiamento british di distacco non neutrale, e possiede anche un senso malinconico dell’esistenza più propriamente romantico, alla stregua delle poesie dei suoi conterranei, Shelley o Keats o Byron, che solo chi ha immerso l’anima nelle brughiere delle lande d’Albione può tenere a dimora nel proprio cuore. Wright è per i Pink Floyd l’equivalente di George Harrison per i Beatles, con lo stesso gusto compositivo delicato e particolare, difficilissimo da imitare, semplice eppure ricercato al contempo. Una terzina, un accordo ed eccoti rivoltata un’intera canzone. E di quella terzina, di quell’accordo, magari ci si accorge soltanto con estrema concentrazione, dopo anni di ascolto, perché quella è una delle qualità più sopraffine dell’arte, sapersi celare all’occhio poco attento, rendersi muta all’orecchio distratto; eppure anche l’orecchio distratto e l’occhio poco attento la sentono e la guardano di continuo e semplicemente non sanno che è lì, invisibile e muta soltanto perché più pura e trasparente dell’aria che l’avvolge. Così era anche lui, Wright, raro esempio di artista che incarna la propria arte, che si immedesima in lei al punto da svanire quando lei svanisce, e rifulgere quando lei splende.

Che c’è di più struggente di quella meravigliosa basilica sonora che è Shine on You Crazy Diamond? Lì il suo tocco è decisivo, pervasivo, raggiunge livelli sonori cosmici. Esisterebbe Shine senza tastiere? No, sebbene qualche divertissement ne abbia provato a scalfire l’essenza per mezzo di bicchieri suonati da un artista di strada. Mi spingo più in là: esisterebbe l’idea che qualcuno di noi possiede dell’universo, delle galassie, dei viaggi cosmici senza la colonna sonora di quei siderali tappeti di sintetizzatori? Probabilmente no. Almeno, io sognerei l’universo con molta minore intensità.

Saremmo così affezionati all’album Animals senza quelle incursioni di Hammond, senza quei giri armonici carnosi come foglie di cactus, caldi come viluppi di rose in maggio, oppure glaciali come viaggi siberiani nella tundra? E scusate se ricorro alle iperboli ma davvero è difficile descrivere quella compattezza sonora senza sinestesie.



Wright, peraltro, può appuntare al suo petto un’altra incomparabile medaglia: è l’unico membro della band a essere stato ufficialmente escluso dal Tiranno. Messo a libro paga come l’ultimo dei turnisti, lui che aveva edificato a calce e Farfisa il tempio dorato e spettrale di Echoes, lui che aveva disegnato gli arabeschi di sintetizzatore in Any Colour You like, lui che aveva lasciato che si stagliassero nelle sale da concerto della nostra mente le incredibili e nostalgiche evoluzioni di The Great Gig in the Sky. Sarebbero bastate queste tre canzoni, a chiunque, per marchiare a fuoco il proprio nome nell’empireo assoluto della Musica, e invece lui fu retrocesso all’ultimo banco, dietro la lavagna, quasi stralciato da una vicenda umana e musicale che si accingeva a diventare Storia. Waters aveva potuto farlo perché era lui il più debole, il più fragile, l’anello scricchiolante della catena? Oppure perché l’aveva ritenuto ormai superfluo, ridondante, non necessario per il progetto che gli si era delineato nella testa? Non lo sapremo mai, ma non ha importanza.

Wright era un talentuoso musicista, timido e gentile, che ha un merito assoluto: quello di aver letteralmente creato il suono dei Pink Floyd, quel suono che poi la chitarra di Gilmour ha reso unico, un marchio di fabbrica. E se è vero che la band, come entità corporea e giuridica, era già in archivio da un pezzo, nessuno potrà negare che sia stata la morte di Wright a certificarne la fine, perché quella morte ha spento definitivamente l’assurda speranza che un giorno l’impossibile potesse realizzarsi.

Sarebbe un’impresa descrivere oltre l’influenza della musica di Wright sulla mia vita, quanto ami riascoltare le sue canzoni e quali di esse preferisca. Ma voglio suggerirvene una in particolare, che io giudico meravigliosa non tanto come canzone, ma come compendio dei sentimenti che Rick dosava nelle sue opere: nostalgia, malinconia, ma anche tanta tenerezza. La canzone di cui parlo è See-Saw, eseguita da un gruppo di ragazzi che la interpreta con molta intensità. Giudicatela voi. E ricordatevene, il prossimo 15 settembre.




Commenti

  1. Bellissimo articolo! Bellissime riflessioni... Concordo in tutto, mi permetto di aggiungere che di Wright se ne parlerà sempre di più in futuro, chi lo ha sottovalutato lo ricoprirà fra le pieghe della sua creatura: il sound dei Pink Floyd!

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  2. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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