Il Monumento.

Ho letto un libro di un autore italiano. Una specie di record. Nella mia personale formazione - anglocentrica e americanofila, duole confessarlo - la letteratura narrativa italiana si ferma a una specie di nebulosa nella quale galleggiano, vaghi e deformi come ombre, i nomi di Calvino, Moravia, con l'Eco finale. Ma non mi hanno mai fatto una grande impressione. Il fatto è che gli italici autori di narrativa mi sono sempre sembrati, con tutto il rispetto, dei pigmei. Sarà stato, vallo a sapere, un pregiudizio derivante dall'obbligo scolastico di leggere (e studiare) in tutte le salse il Tomo per eccellenza della narrativa italiana, lo Spartiacque, il Monumento: I promessi sposi del Manzoni. Immaginate tutte le generazioni di italiani che hanno dovuto sgobbare su quel libro. Nel mio caso cominciarono alle elementari, con un sunto per bambini; poi si passò a un sostanzioso riassunto alle medie, e allo studio vero e proprio, con tanto di approfondimenti momiglianeschi, alle superiori. Il che non è certo la condizione ideale per apprezzare il valore narrativo dell'opera. Su questo punto suppongo siano stati versati fiumi d'inchiostro, non introduco certo un argomento nuovo: si apprezza di più la letteratura quando questa, come una moglie amata, viene scelta liberamente? Oppure l'imposizione non lascia traccia nel piacere di leggere? Ai posteri l'ardua sentenza, come si dice. Per tornare al punto di partenza, dicevo, ritengo che gli italiani - sotto il profilo narrativo, bisogna sottolinearlo, perché a livello poetico è un altro paio di maniche - siano un popolo sottosviluppato (e non solo sotto il profilo narrativo, potrebbero aggiungere molti di voi). Sarebbe impietoso paragonare uno come Philip Roth a, che so, un Erri De Luca. Con tutto il rispetto per Philip Roth, si intende. Sarebbe impensabile accostare un David Foster Wallace a un, per dire, Niccolò Ammaniti. Oppure un De Lillo a un Lagioia. O anche uno Stephen King a un Camilleri. Non c'è partita, dai. Sarebbe come andarsela a giocare con una squadra di terza categoria col Real al Bernabeu. Roba da far accapponare la pelle.
Eppure, eppure qualcosa c'è. Ho letto questo scrittore italiano che mi è piaciuto molto. Si chiama Paolo Giordano e il libro è La solitudine dei numeri primi. Certo, ci sono arrivato con dieci anni di ritardo, però per me è stata una bella scoperta. Una scoperta che ha riacceso in me una speranza, un lumicino nella nebulosa che l'ombra ingombrante del buon Manzoni aveva gettato sul mondo. E magari chissà, ora che il seme è piantato, e la ricerca avviata, chissà che non scopra che altri fiori sono nati sotto i miei occhi e io non solo non me ne sono mai accorto, ma li ho pure calpestati. Ché poi, diciamocelo: uno sgarbo agli americani mi piacerebbe tanto farlo.

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