Questione di pecore... e di fede.
Qualche
giorno fa è passato a trovarmi un caro e vecchio amico, ed è stata l’occasione
per fare due chiacchiere. Tra l’altro lui ha sempre amato i Pink Floyd, sa
quanto li ami io, e ne ha approfittato
per pormi qualche domanda. Naturalmente io, che quando affronto certi temi vado
in brodo di giuggiole, non mi sono certo fatto pregare. E allora mi sono
dilungato sul certosino lavoro del giovane Alan Parsons sul suono di un
monumento come The Dark Side of The Moon, sulla scientifica perfezione sonora
di The Wall, e su altre simili amenità. A un certo punto è venuta la domanda
alla quale ho risposto con più difficoltà. Sostengono alcuni, chiede il mio
amico, che i veri Pink Floyd siano finiti nel 1972 (cioè, prima del successo
mondiale). E’ così?
C’è
una premessa da fare. Ci troviamo di fronte a due scuole di pensiero,
inconciliabili tra loro. Come se qualcuno pretendesse che tifosi della Juventus
e tifosi dell’Inter organizzassero un improvviso e incredibile gemellaggio con
lasagne, birra e rutto libero. Quindi, a fronte dell’aleatorietà implicita in
ciascuna delle risposte, e qualsiasi sia la risposta, bisognerà attingere alle
ragioni della fede. La fede, che non richiede spiegazioni e non pretende
giustificazioni. Tifare, che so, per l’Inter non è di certo una colpa (o
meglio, lo è per molti, però trattasi di colpa lieve e senza rimedio).
Preferire il riso alla pasta è una scelta che, pur censurabile per alcuni, per
altri è perfettamente lecita. Così come è legittimo che alcune stirpi sassoni
del XXI secolo, che popolano le ridenti vallate bavaresi e che colà allegramente
si riproducono, condiscano talvolta la pasta con la marmellata. Forse che
dovremmo organizzare una crociata e punire gli infedeli? Fa schifo? Certo, che
fa schifo. Ma non a loro. Sarà una scelta opinabile, però è una questione di
fede.
Il
gregge Pink Floyd ha avuto due vite. Durante la sua primissima giovinezza
pascolava beatamente nei prati di Grantchester, come si ebbe poi modo di
rievocare in una bucolica canzone successiva (Grantchester Meadows, del 1969,
disco Ummagumma). Quando erano ancora dei lattanti il capo degli agnellini era
un poliedrico giovine di belle speranze, tal Roger Keith Barrett che tutti
conoscevano come Syd. Fu lui a instillare nella testa dei suoi tremebondi compagni
la strana idea della psichedelia. E così, tra canzoni che parlavano di
spaventapasseri, allucinazioni deformi che richiamavano fiabe gotiche, e pezzi
di una bellezza elementare e primitiva, i quattro agnellini cominciarono il
loro viaggio nel vasto mondo della musica. Dopo un paio d’anni, però, al già
portentoso numero dei suoi talenti il capogregge Syd dovette aggiungere (suo
malgrado, suppongo) anche quello della schizofrenia, un antipatico lascito dell’abnorme
uso di acido lisergico che il giovane agnello amava sperimentare. E non mancò
chi, finalmente, riuscì a spiegarsi le origini di quelle canzoni astruse che
duravano quanto un intero disco dei Beatles. Fu così che gli agnellini
superstiti si ritrovarono a passare la notte nella vasta pianura deserta, senza
guida e in balia di lupi e sciacalli. Compresero ben presto che belare di paura
non solo non sarebbe servito, ma avrebbe vieppiù attirato i cacciatori. E così
si nascosero in un anfratto e decisero il da farsi. Punto primo: il bastone del
comando passava allo spilungone del gregge, un agnello dinoccolato e brufoloso
di nome Waters. Punto secondo: bisognava sostituire la pecora zoppa, e lì saltò
fuori il nome di un agnellino che era già noto al gregge. Veniva dalla loro
stessa fattoria e si chiamava Gilmour.
Rinfrancati dalla notte passata senza
subire danni, e in compagnia del loro nuovo compagno, i quattro agnellini
ricominciarono a girovagare qui e là, vagando alla cieca, senza sapere bene
cosa fare. Il nuovo capo, Waters, era determinato ma inesperto. Gli altri gli
trotterellavano dietro con fiducia, non sapendo che fare di meglio. Vennero anche
i dischi, alcuni memorabili (A Saucerful of Secrets, Meddle), alcuni meno
(More, Obscured by Clouds), altri controversi (Ummagumma e Atom Heart Mother).
Ma il grosso lo fece il vagabondaggio. Girare fu la loro fortuna. Diventarono
compatti e solidali tra loro, ognuno aveva il suo ruolo e vi adempieva con
diligenza. E intanto crescevano, diventando pecore belle sane e forti. Andarono
a pascolare in America, e anche se non ci fu il successo che ci si aspettava fu
una buona esperienza. Impararono anche dagli altri: furono il gruppo che
condivise il vagabondaggio di un famoso caprone nero, tale Jimi Hendrix da
Seattle. Raggiunsero la celebrità con le esibizioni dal vivo. Le loro canzoni
erano interminabili. Veri e propri trip mentali. Avanguardia dello spirito. Una
canzone poteva durare mezzora, o anche di più. Il pubblico che interveniva ai
concerti si preparava come poteva, con mezzi leciti e illeciti, sapendo che
avrebbe comunque assistito a una esperienza multisensoriale che difficilmente
avrebbe dimenticato. Così come non si stupiva che tra una canzone e l’altra ci
volessero due o tre minuti per riaccordare gli strumenti, cosa inimmaginabile
per i tempi televisivi di oggi. L’impronta di quella turbolenta giovinezza fu
una soltanto: la sperimentazione. Partire da un suono, o da un concetto, e
vedere dove è capace di portarti. Ragionando come Picasso, ma al suo contrario:
lui decostruiva una forma fino all’osso, loro partivano da un segmento e ne
facevano una cattedrale. Ora, nel 1972, il belato delle quattro giovani pecore
era così vigoroso da non temere notti all’addiaccio.
Nel
1973 ci fu uno tsunami che travolse l’intero scenario della musica mondiale: un
disco intitolato The Dark Side of The Moon. Quell’opera leggendaria cambiò per
sempre le sorti del gregge, e non avrebbe potuto essere altrimenti. Consacrò
definitivamente Waters come montone capo. Il suo secondo in comando era
Gilmour, poi venivano Wright e Mason. Il gregge aveva infine delineato la sua
struttura sociale interna: la classe dirigente, montone e vicemontone, e la
classe operaia, le pecore semplici. Il disco vendette centinaia di milioni di
copie e rimase in classifica per svariati decenni, più o meno come Berlusconi
se prendesse il 97% dei voti. Tutto era scintillante e perfetto, una qualità
sonora ultraterrena, effetti speciali mai sentiti prima, una bellezza
stilistica senza precedenti. In mezzo a tutte quelle rilucenti medaglie, però,
si nascondeva un piccolo cambiamento che non tutti notarono: i Pink Floyd
avevano tacitamente dichiarato l’ingresso nella seconda fase della loro vita,
la fase adulta, e avevano abbandonato definitivamente i sogni dell’infanzia.
Quelli che suonavano in quel disco meraviglioso non erano più i quattro
agnellini sopravvissuti a una notte di terrore, dispersi nelle brughiere,
costretti a vagabondare per procurarsi il cibo, a sopravvivere alla legge del
più forte. Erano pecore adulte, robuste, sicure di sé, abbastanza da
fronteggiare un pulcioso branco di lupi. Soprattutto, non tornarono mai sui
propri passi. L’infanzia era andata: perché rimpiangerla? Meglio guardare
avanti e partecipare in prima pecora alla costruzione del futuro. E così fu. Vennero
montagne di fieno, ogni ben di Dio, ricompense da re per semplici esibizioni.
Vennero le prime litigate, vennero le camere d’albergo invece che i fienili, le
macchine di lusso al posto delle carriole. Venne il mondo intero. E il montone
capo, Waters Roger della fattoria di Great Bookham, decise che ora che il vento
soffiava forte in poppa, ora doveva finalmente far sentire la sua voce, la sua,
la sua che sapeva essere più forte, più rabbiosa di quelle altrui, e che
disponeva del formidabile megafono rappresentato dal suo celebrato gregge. E
venne The Wall. E con The Wall venne un nuovo colossale successo, all’imponente
ombra del quale i piccoli agnellini di un tempo sarebbero stramazzati di paura,
ma venne anche un’altra cosa: la fine. Ciò che seguì fu solo il cozzo delle
corna dei montoni.
E
dunque? I veri Pink Floyd sono finiti nel 1972, alla vigilia del loro successo
planetario? I veri Pink Floyd sono quelli della grande quadrilogia degli anni ’70,
quelli che vendevano tonnellate di dischi negli angoli più sperduti del
pianeta? La risposta è che non c’è una risposta. Allo stesso modo in cui un
uomo adulto, guardandosi indietro, non può eliminare la giovinezza dal suo
percorso esistenziale. La giovinezza e la maturità, sommate insieme, compongono
l’individuo. Nei tardi anni ’60 suonavano canzoni che duravano mezzora. Nei
tardi anni ’70 la canzone più lunga di The Wall durava sette minuti scarsi. Di
certo, senza le notti all’addiaccio passate a tremare nella pianura
difficilmente sarebbero venuti i fasti del decennio successivo. Senza le sperimentazioni,
non sarebbe arrivata la perfezione. Einstein giunse alla formula che lo rese
celebre dopo anni di studi, e anche di fallimenti. Il senso di una catena è
poter contare su tutti i suoi anelli. Se viene meno il precedente,
probabilmente il successivo non sarà lo stesso che avrebbe potuto essere.
Quale
dei due anelli sia più importante, caro Mimmo, è questione di fede.
Grandioso. Non so chi sia il tuo interlocutore, ma lo ringrazio per averti fatto scaturire simile risposta.
RispondiEliminaGrazie, Joshua. Sono contento ti sia piaciuto.
EliminaIl Signore Waters è il mio pastore, ad Acque tranquille mi conduce.
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