Le briciole di Pollicino (tutto Roger Waters in una sola canzone).
Le brevi note che state per leggere sono nate da una domanda: è possibile sintetizzare (per grandi linee, s’intende) una carriera straordinaria, che dura da oltre cinquant’anni, in una sola canzone? Io scommetto di sì. E tenterò di dimostrarlo, ma non prima di aver messo nero su bianco due premesse, o meglio, due avvertimenti.
Primo: questa specie di articolo si basa su
dati e informazioni che presuppongono una conoscenza
medio-alta del repertorio dei Pink Floyd. Ciò comporta una serie di
conseguenze. Se siete tra coloro che mangiano pane e Ummagumma e che si
riferiscono ai membri della band con appellativi come “lo zio” (per indicare
Gilmour) ovvero “Ruggiero” (per riferirsi a quella vecchia canaglia di Waters),
beh, apparteniamo alla stessa famiglia: piacere di conoscervi. Se invece non
avete questo approccio affettivo-maniacale, ma semplicemente vi piace la loro
musica, sono ugualmente onorato di fare la vostra conoscenza. Nell’uno e
nell’altro caso, sarebbe utile, ai fini di questo esperimento, che ascoltaste
le canzoni citate, onde comprenderne appieno la funzione in relazione a ciò che
intendo dimostrare. Se invece siete approdati per caso su queste rive, e
preferite Gigi D’Alessio o la Pausini alla più imbarazzante delle canzoni dei
Nostri (tipo Several Species od Small
Furry Animals Gathered Together in a Cave and Grooving With a Pitch), beh,
siete democraticamente pregati di fare le vostre metaforiche valigie e
ritirarvi nei vostri antri prediletti (che non saranno mai i nostri).
Seconda premessa, giusto perché so che lo state pensando:
no, non sono fissato con Waters, sebbene ne abbia la più alta considerazione,
come intellettuale, come musicista e come abitante di questo triste pianeta. E’
che mi soffermo su di lui perché stiamo parlando di uno dei pochissimi Artisti
(la maiuscola non è un refuso) ancora vivente oggi. Chi lo ama dovrebbe
considerarsi fortunato per aver condiviso con lui la stessa aria e ad aver
vissuto la sua epoca. Doppiamente fortunato, aggiungerei, se ha avuto la sorte
di poterlo ammirare dal vivo.
Esauriti
i preamboli, passiamo all’esperimento. La canzone-cavia è Déja Vu, tratta dall’ultimo disco di Waters (Is This the Life We Really Want?, del 2017). Si tratta di una bella
ballata, semplice e melodica, provvista di testo e atmosfera tipicamente
watersiani. Se avete il disco, selezionatela e mettete su play; oppure aprite
youtube e ascoltatela. Cercherò di analizzare i cinque minuti attraverso i
quali la canzone si snoda per rintracciare eventuali elementi creativi che costituiscano
un marchio distintivo del suo autore, e se essi possano essere ricollegati ad
altri, simili, sparsi qui e là nell’intero repertorio floydiano. Vale la pena
notare come già il titolo sia promettente, ai fini di questa ricerca.
1
1) Il ticchettio dell’orologio. C’è un suono più familiare di questo, per un amante dei Pink Floyd? Se durante la mia infanzia il ticchettio delle lancette segnava l’inesorabile sveglia mattutina, e quindi la scuola, i compiti, le interrogazioni, per farla breve un incubo, nell’era floydiana l’incedere delle lancette è un suono rassicurante e amichevole, che promette (e mantiene) atmosfere ora inquiete (come in Time, 1973), ora intimistiche (come in The Final Cut, 1983).
2) L’arpeggio introduttivo della chitarra, suonato dallo stesso Ruggiero in maniera un po’ “quadrata”, non da chitarrista virtuoso ma con l’approccio del bassista, è strettamente imparentato con la parte introduttiva di Pigs on the Wing, suonata da Waters nel 1977 per l’album Animals.
1) Il ticchettio dell’orologio. C’è un suono più familiare di questo, per un amante dei Pink Floyd? Se durante la mia infanzia il ticchettio delle lancette segnava l’inesorabile sveglia mattutina, e quindi la scuola, i compiti, le interrogazioni, per farla breve un incubo, nell’era floydiana l’incedere delle lancette è un suono rassicurante e amichevole, che promette (e mantiene) atmosfere ora inquiete (come in Time, 1973), ora intimistiche (come in The Final Cut, 1983).
2) L’arpeggio introduttivo della chitarra, suonato dallo stesso Ruggiero in maniera un po’ “quadrata”, non da chitarrista virtuoso ma con l’approccio del bassista, è strettamente imparentato con la parte introduttiva di Pigs on the Wing, suonata da Waters nel 1977 per l’album Animals.
3 3)
More resistant to alcohol. In pratica, nel primo verso della canzone
Waters dichiara che, se lui fosse Dio, si preoccuperebbe di “dare una risistemata ai capillari della
faccia / in modo da renderli più resistenti all’alcol”. Si tratta di un
intervento del tutto coerente col disegno watersiano della media umanità che, a
mezza età, annega i propri fallimenti nelle inebrianti bevande druidiche di
moda in terra d’Albione. Tanto coerente che già in Paranoid Eyes (1983) aveva prefigurato una “soffice mezz’età alcolica” come metodo per alleviare gli stenti della
vecchiaia. E dunque, attenuare gli effetti dell’alcol mediante un intervento
estetico da parte dell’aspirante Dio Ruggiero è invero una scelta generosa e
lungimirante.
4) La
risata in sottofondo. Valga
quanto detto al punto 1): per un floydiano, dopo gli orologi, c’è solo la
risata stridula, sadica, come marchio di fabbrica inconfondibile. Qui è appena
accennata, immediatamente prima dell’ingresso della batteria. Il trionfo della
risata è celebrato in The Dark Side of
the Moon (1973), dove i lunatici danno il loro meglio tanto in Speak to Me quanto in Brain Damage (quasi ad aprire e chiudere
il disco, quindi a marchiarlo indelebilemente). Ma c’è anche la risata
demoniaca (di cui si occupa personalmente Ruggiero) in Dogs e in Sheep (1977) e
in One of the Few (1983) e in Shine on you Crazy Diamond (1975). Il
simbolo della risata in Waters merita qualche riflessione supplementare. E’
evidente che egli la consideri la metafora della follia, dell’insano modo di
esprimere se stessi in una duplice accezione: a) l’ingenuità di coloro che,
secondo gli indiani d’America, essendo toccati da Manito, sono in qualche modo
sacri, unti dal signore, e in questa ottica più normali dei cosiddetti normali;
b) correlativamente, essa è il simbolo assoluto della stoltezza (e in questo
senso richiama direttamente l’antico brocardo del riso che abbonda “in ore
stultorum”).
5) Il
drone. L’ennesimo
simbolo watersiano dell’imperialismo occidentale, che attualmente identifica in
Trump il suo campione, e che in altri tempi aveva come rappresentanti Thatcher,
Nixon, Begin, Galtieri (The Fletcher
Memorial Home, 1983). Del resto il drone è un ottimo dispensatore di bombe
anche grazie al suo “occhio elettronico”, qui citato, e che era già stato
stigmatizzato nella canzone che dà il titolo a The Final Cut (1983).
6) Il missile, l’esplosione. Trovata scenica ricorrente che allude
alla morte in diretta, ammannita con estrema e sinistra leggerezza. Basti
pensare a Late Home Tonight pt. 1 (Amused
to Death, 1992) e a Get Your Filthy Hands
Off My Desert (1983).
7) L’aereo
privato. Il Gulfstream
dell’ultima strofa non è che la versione aggiornata del Lear Jet di Money (1973): sotto il suo volo
simbolico si srotolano come tappeti sdruciti le miserie umane.
In sintesi non
ho dimostrato niente se non, forse, che l’immaginario dal quale un artista
pesca per le sue composizioni è più o meno sempre lo stesso. Del resto anche
Caravaggio ha incentrato il lavoro di una vita sull’uso della luce in tutte le
sue varianti, così come Neruda ha cantato per tutta la sua esistenza le diverse
forme dell’amore e Chopin ha approfondito le sue scale cromatiche. Credo accada la stessa cosa anche a Ruggiero. Che si tratti
di orologi o di missili: è la sua vita, che racconta. E se mi capita di restare
incantato davanti a un quadro di miracolosa fragilità come Il ragazzo morso da
un ramarro, o ipnotizzato dai versi di Mi piaci quando taci perché sei come
assente, so che ascoltando una ballata semplice semplice come Déja Vu ci
troverò dentro un patrimonio di segni, briciole di Pollicino sparpagliate nella
selva, indizi di una vita: una caccia al tesoro a cui mi piacerà sempre
giocare.
A me rimane impressa la risata di Embryo (versione live che ben conosci) e poi il verso sul quale insisto, L'amore è l'ombra che matura il vino: quale verso più azzeccato per unire alcool e sentimento?
RispondiEliminaCerto, anche quella è leggendaria, e sebbene sia una risata di gioia in quel concerto (live in London 1971) non manca di trasmettere un brivido di inquietudine. E sul verso , come darti torto?
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