Oggi incontriamo… Arthur Rimbaud. (1854 – 1891)

Ieri, dopo estenuanti trattative, siamo riusciti a ottenere un incontro davvero straordinario con uno dei poeti più celebrati e controversi degli ultimi due secoli: stiamo parlando di Arthur Rimbaud. Per i pochi che non lo conoscessero, Rimbaud scrisse poesie per un brevissimo periodo, più o meno dai quattordici ai diciotto anni, e poi abbandonò per sempre la scrittura dedicandosi a tutt’altro, fino a emigrare in una sperduta regione dell’Africa orientale dedicandosi al commercio (più o meno lecito). Morì a Marsiglia nel 1891 per un cancro al ginocchio. Aveva 37 anni. Quando lo abbiamo incontrato, tuttavia, sembrava abbastanza in salute, forse solo stanco e un poco scontroso. Quella che segue, integralmente riportata, è la sua versione dei fatti, che pubblicheremo in due puntate. Ecco la prima.
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Non giriamoci intorno. Cominciamo dalla domanda che tutti hanno sognato di porti. Perché hai smesso con la poesia?

(ride). Se lo dici così, sembra che la poesia fosse una droga. Beh, in parte lo era, e non so nemmeno dirti quanta parte. Parecchia, credo. Quindi devo dire che hai fatto una buona domanda. Ad ogni modo, ci sono diversi motivi che mi hanno portato a quella scelta. Alcuni più importanti di altri. Non me li ricordo tutti, è passato tanto tempo.

Prova a dirmene qualcuno che ricordi.

Ricordo un colpo di rivoltella, per esempio. Come dimenticarlo?

Di quello parleremo dopo, se vorrai. Vai avanti.

Va bene, ma quello è uno dei motivi. Ne parleremo dopo, ma non è che ne abbia molta voglia. Poi, come dicevo, ci sono anche motivi più banali. Mi ero stancato di scavare. Scavare dentro se stessi è pericoloso, oltre che difficile. Non sai mai cosa possa venir fuori.

Che cosa veniva fuori?

Le visioni ti sfiancano, a lungo andare. Ti lasciano sul pavimento con la bava alla bocca. Talvolta sono fiori che spalancano le fauci. Non so se hai compreso.

Credo di sì. Insomma, eri stanco della poesia ma anche un po’ impaurito da lei. Ho capito bene?

Non da lei in quanto tale, ci mancherebbe. Sarei disonesto se lo dicessi. Era di me stesso, che avevo paura. Delle mie capacità e della loro capacità di durare nel tempo, di sopravvivere al tempo. Mi rendo conto che sia un gioco di parole, ma è piuttosto semplice.

Dunque non credevi abbastanza in te stesso, giusto?

Sembra facile, ma scrivere con l’angoscia di rimanere sempre al livello di ciò che hai scritto il giorno prima ti porta alla nevrosi. E le nevrosi, se protratte, ti portano alla follia. Io non volevo diventare pazzo. Ero troppo giovane. Ho dovuto scegliere.

Capisco.

Non credo tu possa capire fino in fondo. Erano tempi molto diversi da questi. La poesia era prerogativa di gente di cui io rappresentavo l’esatto opposto. Gente adulta, e anche benestante. Io ero un ragazzino, un ragazzino senza il becco d’un soldo. Inconcepibile che io scrivessi poesie.

E che poesie, poi.

No, lascia stare, non si tratta del valore delle poesie. Ma della mano che detiene la fiaccola da cui esse promanano.

Chi deteneva quella fiaccola?

Secondo loro, la fiaccola era nelle loro mani. Saldamente. Non solo non avrebbero mai immaginato di privarsene, ma nemmeno che un adolescente potesse insidiarli. Era inconcepibile, del tutto fuori discussione.

Puoi essere più preciso quando parli di “loro”? Chi erano “loro”?

Oh, preferisco non pensarci. Il solo pensiero mi disgusta. Tutta quella gente che mi guardava come avrebbe guardato una blatta o poco più. Fumavano e si crogiolavano nei loro complimenti reciproci. Gentaglia, davvero.

Immagino tu ti riferisca ai poeti del circolo parigino che ti accolse.

Principalmente ma non solo. Ripeto, non mi va di parlarne.

D’accordo, cambiamo argomento. Molti studiosi si sono scervellati dietro ai tuoi improvvisi cambi di direzione, nella poesia e nella vita. Erano solo le bizze di un adolescente?

Ma no. E’ la vita a possedere una natura inquieta. La vita stessa. Ti costringe a prendere una direzione invece che un’altra. Ti induce a fare delle scelte. Ciò mi appariva chiaro quando camminavo. Tu lo sai che adoravo camminare, no? Arrivava sempre il momento di decidere se andare a destra o a sinistra. Se andare avanti o tornare indietro. Questa è una regola semplice e chi cammina la conosce bene. Io ho sempre voluto andare avanti. Indietro, mai.

So che hai ragione perché anche a me piace camminare. Ma che significa andare avanti, nella vita e nella poesia? Non è che quello che tu intendi per “andare avanti”, per altri significa “tornare indietro”?

(ride). Mi pare un approccio troppo filosofico per i miei gusti. Io detesto la filosofia. I filosofi andavano bene nell’antichità, quando c’era tutto il tempo di fermarsi a riflettere e meditare su un certo aspetto di questo mondo o dell’altro. Quando manca il tempo manca anche il lusso della riflessione. Devi agire, devi dare una risposta immediata. Per questo trovo che la filosofia sia un’attività nobile ma morta.

Sarà anche morta, ma tu non ha risposto alla domanda.

Certo, non ho intenzione di sottrarmi alla tua domanda. Volevo però aggiungere un’osservazione alla questione della filosofia.

Dimmi.

Devo dire che un solo autore sosteneva concetti che io trovavo interessanti. E peraltro era poco più grande di me, se non sbaglio.

Scommetto che si tratta di…

Nietzsche, il tedesco. Quella sua idea del superominismo era perfettamente coerente con ciò che sostenevo io. L’uomo è una creatura mediocre, e può vivere nella mediocrità per millenni. Soltanto un uomo superiore può riscattare il genere umano dalla sua grettezza. L’essere superiore, per diventare tale, deve spogliarsi della modernità e tornare alla potenza delle origini. Quando l’uomo viveva a contatto con gli elementi basilari della vita, acqua, fuoco, terra e aria. Quando l’uomo era crudele per necessità e senza senso di colpa.

Sì, ma se non ricordo male tu stesso avevi scritto (credo nella Stagione all’Inferno) che trovavi i tuoi antenati Galli “gli incendiari di erbe più inetti del loro tempo”. In generale, non mi pareva ne avessi una grande opinione.

Infatti non ne avevo. Ma questo non contrasta con quanto sostenevo poc’anzi. Il ritorno alle origini del superuomo deve scavalcare tutte le epoche. I Galli non erano che stupidi barbari coi capelli unti intenti a scorticare bestie, e da essi io discendo. Io parlo dell’uomo delle origini. L’uomo primigenio, quello che si nascondeva nelle caverne e che era terrorizzato dal fuoco. Noi non discendiamo da quegli uomini se non attraverso una complicata successione di epoche e generazioni. Questi passaggi ci hanno diluito il sangue. Perciò siamo tanto molli.

D’accordo. Possiamo chiudere la parentesi e tornare alla poesia? Anzi, alla mia domanda?

Qual era la domanda? L’ho dimenticato.

Che significa andare avanti, nella vita e nella poesia?

Beh, che posso dire. Andare avanti nella vita non so cosa voglia dire. Non posso aiutarti. Dovresti rivolgerti a un paleontologo, a un naturalista, o a un antropologo. Non ne ho la minima idea.

E nella poesia?

Qui è diverso, la mia opinione posso dartela. Vediamo. Andare avanti nella poesia è fare ciò che io ho fatto. Prendere la poesia esistente e rivoltarla come un calzino, e poi rivoltarlo di nuovo.

Concordi, dunque, con tutti gli studiosi che definiscono rivoluzionaria la tua poesia.

Sì, a rischio di apparire immodesto. Non me ne importa un fico secco della modestia, se è falsa. Così come non mi importerebbe di una lode se fosse fasulla. So che quegli studiosi hanno ragione da vendere. Avresti dovuto vedere che scompiglio. I poeti e i letterati, tutti quei fanfaroni, correvano qua e là come formiche in un formicaio squassato da un incendio.

Naturalmente erano gli stessi che credevano di stringere la famosa fiaccola.

Sì, ma l’onda d’urto si propagò a cerchi concentrici sempre più ampi, come quando lanci un sasso in uno specchio d’acqua. Non ci volle molto tempo perché diventasse un vero maremoto. Peccato non esserci stato.

Perché tu avevi preso già altre strade.

All’epoca la poesia non era più una mia priorità.

Ci torneremo tra poco. Ora vorrei fare un passo indietro. Com’è stato il bambino Rimbaud?

(a questo punto scrolla le spalle quasi con fastidio, come se gli avessero posto la stessa domanda un migliaio di altre volte, ma alla fine risponde).

Ma come vuoi che sia stato? I bambini sono bambini ovunque e in ogni epoca. Io ero un bambino meno vivace di quello che si creda. Mi piaceva molto leggere, ero curioso e i dai libri potevo osservare il mondo intero. Anche se quello a cui rivolgevo lo sguardo era il mondo antico.

Il mondo dei classici, intendi?

Già, quello. Mi piaceva il latino. Mi faceva sentire un eroe, come Muzio Scevola, come tutti i guerrieri disposti al cieco martirio per il loro ideale. Scommetto che a Nietzsche gli antichi romani piacessero molto. Forse era a loro che pensava, quando scriveva le sue cose.

E tu a chi pensavi?

Io? A nessuno. Io pensavo a me stesso, perché volevo diventare grande, il più grande di tutti. Avevo un’ambizione enorme. Sono sempre stato ambizioso. Perché credi che abbia vinto tutti quei premi, a scuola?

Per l’ambizione?

E per cos’altro? Tutti noi siamo ambiziosi. Tutti noi abbiamo un orgoglio a cui badare, e l’orgoglio è una belva vorace, perennemente affamata, e bisogna che la nutriamo di continuo. Non è così?

Hai scritto poesie per ambizione.

Sì. Assolutamente sì. Puoi anche scriverlo, mica me ne vergogno. Tanto tutti quelli che scrivono lo fanno per ambizione, anche se non lo dicono.

Hai avuto un rapporto difficile con tua madre?

Tu potresti dire di non aver avuto un rapporto difficile con tua madre? Il rapporto tra un figlio e sua madre è sempre difficile. E’ difficile se lei è scostante, ed è difficile se ti ama troppo. Trovare una via di mezzo è quasi impossibile.

E dunque?

E dunque sì, ho avuto con lei un rapporto difficile.

Era troppo scostante o ti amava troppo?

(ci pensa un attimo). Entrambe le cose. Ma non voglio più parlarne.

Scusami. Solo un’ultima cosa e poi passiamo ad altro. Cosa ti viene in mente se ti cito questi versi: “La Signora sta troppo in piedi nel prato vicino dove nevicano i fili del lavoro / con l’ombrello fra le dita calpesta l’umbella / troppo fiera per lei / e in quel fiorito verde / fanciulli leggono il libro di marocchino rosso”?

E allora? Vuoi sapere cosa mi ricordano?

No. Non cosa. Chi.

(sbuffa). Lei. Mia madre.

E in questo quadretto tu eri uno dei fanciulli che leggono il loro libro di marocchino rosso, giusto?

(fa una strana smorfia). Ragazzo, tu le poesie non sai leggerle. Io ero quel piccolo fungo. L’umbella.



[Fine prima parte. Continua…]

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