Il Doganiere
Mi tocca elogiare anche
il misconosciuto Rousseau, il Doganiere. Il lupo che galoppa sui campi di
battaglia. Rousseau è un tapino che impara a fermare il tempo. Come Boccioni.
Gli sghignazzanti starnazzi con cui lo si accoglie sono poco più che ronzio di
stupide mosche. Malgrado recensioni odiose, maneggia il Graal che ogni poeta
rincorre. La visione. La preveggenza. Arte profetica, dunque necessariamente
apocalittica. All’avverarsi dell’ultima profezia, condicio
sine qua non, qualcuno irrompe dai cieli
brandendo lame incandescenti. Un San Giovanni stanco di scrivere cronaca nera e
finalmente in groppa all’urlante lupo vendicatore, a scontare in un solo
galoppo mille anni di prigione. Sotto, stanno i morti. Brani. Bocconi sanguinolenti
per i corvi, l’altro collante del dipinto. Il piumaggio nerissimo bilancia le
foglie e l’ombra incombente del folle cavaliere. Sul fondo, ottusamente e fuori
contesto, nubi che sembrano viluppi di rose – rose in viluppi di nubi –
lasciatesi adescare dal cielo turchese. A levante, a est, a sinistra, conserva
tiepida la coperta del sole appena sorto. A ponente, a ovest, a dritta, rilampa
minacce di naufragio. Chiunque sia, il cavaliere ha scoperto come oltrepassare
trincee per unire fronti opposti. Volteggiare sui morti, per l’oscuro
destriero, non significa dileggio. E’ obbedienza a una legge di natura. I morti
stanno. Imbelli, in balia del becco ritorto.
(N.B.
Nel quadro c’è immenso egotismo. E alcuni autoritratti. 1) Angolo basso
sinistro. Sotto la coda del corvo. 2) Angolo basso sinistro. In mezzo alla
stessa coda. 3) Centro del quadro. Personaggio in giacchetta nera che giace
supino a braccia spalancate. 4) Centro del quadro, fondo basso. Quel che sembra
il cadavere di un prigioniero passato per le armi. 5) Angolo basso destro. Il
cadavere barbuto su cui banchetta un corvo. 6) Scommetto che è sempre lui, il
pittore, in tutti i corpi di spalle. 7) I corvi divorano sempre pezzi vivi e
sanguinanti dei presunti autoritratti individuati. Dichiarazione di
autolesionismo, o colpa manifesta?
(N.B. 2. Dello stesso
autore un’allegoria di esplosiva potenza sessuale. Un quadro verticale, dalla
narrativa che si inerpica verso l’alto. Fili d’erba, essenze esotiche
inesistenti che scompaiono in pesanti foglie pendenti. Carnose, esauste.
Osservando l’albero nell’insieme intravedo figure dissimulate. Una damigella,
le cui costole sono felci, gli occhi inondati di luce che non possono
ingannare. Al suolo, i serpenti strisciano il contrappunto. Fossero escrescenze
vegetali non avrebbero pathos; loro impongono il timore atavico. Il momento
storico è identificato dalla luna. Grande, sull’orizzonte, è al crepuscolo o
all’alba. Il fenicottero è un rafforzativo ridondante dell’ambientazione
equatoriale. Questo è un quadro che si può leggere in senso antiorario. Si
parte dal basso a destra, dove i corpi cavernosi delle agavi si erigono come
peni. Si sale penetrando il lussureggiante intrico delle carni sode. Si vira a
manca verso le lingue pendule pronte a lappare il lago. Poi giri a destra e sei
tornato nelle gonne agaviche. L’unico figuro che cerchi di evitare fino
all’ultimo è lo spaventapasseri nel mezzo. Quello che avanza suonando una
cornamusa di serpi. Ciò che ai suoi piedi aveva l’aspetto di morta vegetazione
ora s’alza. Si desta dal sonno in un delirio erettile. Cerca le carezze dei
polpacci, ci si struscia sibilando. Anche il re, sollevato sui troni frondosi,
si scomoda per accogliere il suono novello, rendendogli tributo senza sapere
ragioni. Il nero incantatore è indecifrabile. Una danza di musica erpetica e
occhi irrealmente spalancati sono l’unica chiave di lettura. Occhi che sembrano
riflettere quelli che lo guatano, più subdoli, più nascosti negli anfratti
della foresta. Sono emissari della luce del grande occhio che splende alle sue
spalle, crudelmente sospeso nel cielo impalpabile.
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