VERA LYNN E IL MALE DI VIVERE



Does anybody else in here / Feel the way I do?

Con questi due versi, nel contempo lapidari e inquieti, Roger Waters chiudeva la breve canzone Vera Lynn del secondo LP di The Wall. Un pezzo che, a dirla tutta, sta al suo posto in quella cattedrale sonora che è il disco del 1979, e che non manca di svolgere il suo compito di mattoncino nel muro che quella faina di Waters aveva concepito ma che, dopotutto, è poco più di un brano interlocutorio - oserei dire un riempitivo se non avessi il timore di scatenare l'ordalia degli ortodossi.

Se non fosse che c'è quella frase, quei due versi che un critico più competente definirebbe un distico. E che vuol dire, quella frase? Niente di trascendentale: non è che riveli il segreto dei Rosacroce o la formula magica del dono di Re Mida. Dice soltanto: C'è qualcun altro, qui / Che si sente come mi sento io? Dove, per la precisione, almeno a giudicare dal modo accorato in cui canta, e dall'atmosfera cupa della situazione evocata, non è che Ruggiero (nei panni di Pink) se la passi tanto bene. Quindi è come se dicesse: Ma sono soltanto io, qui / A sentirmi uno schifo?


E forse è il caso di riconsiderare questa canzone negletta, e di rivederla in virtù del suo epilogo, che trova in altri campi parentele illustri quanto insospettabili. Che ne dite se vi citassi alcuni nomi a caso, tutti riferibili a numi tutelari della letteratura mondiale? Esagerato, dite? Stiamo a vedere.



Partiamo dal presupposto che non è detto che Waters conoscesse alcuno dei personaggi in parola, anche se mi pare difficile, e/o che non abbia inteso affatto fare citazioni di sorta: magari si tratta semplicemente di una frase che, per quanto fortemente sentita, non possiede dirette allusioni letterarie. Ciò non toglie che essa, presa per quello che è, di fatto appartenga a una certa "famiglia" stilistico-verbale. Una famiglia antica ed eterogenea, nella quale arcigni e notabili capostipiti condividono la stessa mensa con bizzosi nipotini in vena di baruffe.


A capotavola, adombrato come un rospo a cui abbiano pestato una zampa, immagino monsieur Baudelaire che ribolle a mò di pentola a pressione per via del casino che fanno i bambini. Il suo umore, come sempre, è tetro, malinconico e pronto a repentina zuffa. Gli duole la milza, dove il dottore gli ha detto si producano gli umori della bile, ma lui sa benissimo che sul punto avevano ragione i greci: lì ha nidificato l'ipocondria, altro che milza d'Egitto. Nella sua, di milza, si secerne noia a tonnellate, e quintali di angoscia, e lui vorrebbe soltanto starsene a casa a scrivere, o forse in osteria a trangugiare assenzio, o magari a Ceylon a dare la caccia alle tigri, non lo sa nemmeno lui dove vorrebbe davvero stare, ovunque purché non dove si trova, a rompersi i timpani e altri orpelli con gli strilli dei mocciosi che gli scorrazzano sotto la sedia. E infatti ricorda di averlo scritto, da qualche parte, del suo desiderio di fuggire ovunque, ovunque purché fuori dal mondo, e la sua fiducia nel genere umano è tale da fargli affermare che l'uomo è solo un'isola di orrore in un mare di noia. E mentre si diletta in simile dimostrazione di gaio e ridanciano ottimismo non sentiamo, sottoterra, sopraggiungere come un tuono che brontola in distanza lo stesso grido dolente che conclude Vera Lynn? C'è qualcun altro, qui / Che si sente come mi sento io?



Accanto al rospo bitorzoluto, sullo scranno riservato ai notabili, un vecchio e un gobbo si danno di gomito, senza osare mostrarsi divertiti per timore della reazione scomposta del truce batrace. Sono anch'essi rispettati avi di famiglia, e però assai meno rancorosi del malinconico e bilioso rospo piazzato a capotavola. Dei due, il vecchio ha ripreso il tema tanto caro al suo antenato, tema da tutti conosciuto con l'espressione male di vivere, e l'ha rielaborato a modo suo: Spesso il male di vivere ho incontrato, / è il rivo strozzato che gorgoglia, / è l'incartocciarsi della foglia riarsa, / è il cavallo stramazzato. Montale, si chiama il vecchio gufo.



L'altro, il gobbo, sebbene più anziano di un secolo buono e a dispetto della sua deformità, appare curiosamente più giovane e solare. Solare, s'intende, come può esserlo un anatomopatologo che si accinga all'esame autoptico di una carogna di bufalo. Anch'egli, come nella migliore tradizione del blasone, coltiva l'arte sublime del patimento e scrive versi come: Quando miro in ciel arder le stelle, dico tra me pensando: a che, tante facelle? ... ed io che sono? Ebbene, tanto nella poetica del vecchio (Montale) che in quella del gobbo (a proposito, si chiama Leopardi), l'urlo muto che riecheggia è sempre quello, sempre il solito: C'è qualcun altro, qui / Che si sente come mi sento io?



Mentre i vegliardi sobbollono nelle loro inquietudini, un pugno di discoli imperversano nella sala, infuriano sotto il tavolo, fanno cadere i piatti e s'aggrappano ai lembi delle palandrane consunte degli adulti. Uno di loro, il più tremendo, ha degli slavati occhi azzurri e un'espressione maligna e beffarda. Sembra affannarsi a voler dimostrare ai commensali che nessuno è più irrispettoso, spericolato e ribelle di lui, ma quelli gli riservano al massimo la loro sprezzante indifferenza, e non appena possono anche un buon ceffone sulla nuca. E non sanno, meschini, che quel piccolo straccione montanaro, quel buzzurro rattoppato, finirà per capovolgerli tutti, loro e il tavolo sul quale stanno pranzando. A breve scriverà questi versi: Non m'illude più niente di niente, / ridere al sole è come ridere ai genitori, / e io non voglio ridere più a nulla: / e libera sia questa sventura. Il nome terrestre del monello è Rimbaud, e non è forse vero che, appena un pelo sotto la superficie dei versi citati, possiamo distintamente percepire il distico watersiano C'è qualcun altro, qui / Che si sente come mi sento io?



Lo stesso distico che, se si ascolta in profondità, è distinguibile anche nelle parole di un altro furfante imberbe, un ragazzotto con gli occhi color uovo di usignolo, gli stivali sfondati e il liso berretto da ferroviere. E' inverno, nella città di New York, / il vento soffia neve ovunque, / cammino su e giù senza un posto dove andare, / uno potrebbe gelare fino alle ossa, / io gelai fino alle ossa. Come non riconoscere, dietro queste parole, la lamentosa invocazione C'è qualcun altro, qui / Che si sente come mi sento io? (per completezza, il ragazzotto in questione è Bob Dylan).



A ben guardare, nella torma dei piccoli vandali che impazzano nella stanza - a cui i patriarchi riservano occhiatacce e sopracciglio alzato - c'è anche un timido spilungone di nome Waters, uno spavaldo Jim Morrison, un melanconico Kurt Cobain, e decine di altri (migliaia?) che non cito, perché la loro è una famiglia numerosa, se non potenzialmente infinita: anzi, noi stessi, tutti, ne facciamo parte, ognuno col suo grado di parentela, più o meno stretto. Scegliete voi il vostro.






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