ALL'OMBRA DELLE NUVOLE, LA FINE DELL'INFANZIA.

C
’è un detto al quale sono particolarmente affezionato, e che ciascuno di noi dovrebbe incidere su una targa da esporre in bella vista, in modo da tenerla sempre davanti, a memento: del senno di poi sono piene le fosse. L’antico e sapiente adagio, come tutti i brocardi della tradizione popolare, ben può attagliarsi a ogni campo dello scibile umano, e io in questa sede vorrei capire se funziona con riferimento alla mia musica preferita, inutile che dica qual è.

Chiunque, ascoltando un qualunque disco a distanza di trent’anni dalla sua pubblicazione, potrebbe riconoscere in una data canzone una certa parentela con un’altra, scritta in epoca successiva: questo accade proprio perché, in base al citato proverbio, è in fondo semplice collegare tra loro accadimenti già noti. Impresa ben più ardua sarebbe l’operazione inversa: giungere a un fatto noto attraverso la cortina dell’ignoto. È qualcosa di molto vicino alla previsione, all’arte medianica, alla divinazione degli aruspici, e dal momento che noi non possediamo qualità profetiche bisogna contentarsi di ciò che passa il convento, vale a dire la semplice analisi empirica, come quella in cui eccelle Jessica Fletcher nei suoi film.



C’è un disco dei Pink Floyd che, a sentirlo oggi, ci si trovano tanti di quegli spunti che uno poi deve credere per forza alla regola del senno di poi che riempie di sé le fosse. Si tratta di Obscured by Clouds e io non ho paura a sfidare il pubblico ludibrio, e persino la scomunica, al limite la tortura, affermando che è uno dei dischi della formazione classica dei Floyd che ascolto più spesso e, non lapidatemi, con gran piacere. Un pò perché lo trovo un lavoro ben fatto e molto ben registrato, malgrado sia un album che non abbia una direzione precisa, come accade spesso ai dischi dei nostri eroi; e un pò per una serie di ragioni che tenterò di spiegare.

Ricordo che quando ascoltavo il vinile da ragazzino – ah!, dolci memorie: il vinile è per me la madeleine proustiana! – oltre alla misteriosa copertina infarcita di globi luminosi che, molto psichedelicamente, lascia intravedere (forse) la sagoma di un tuffatore, che più tardi avrei idealmente ricollegato al Tuffatore di Paestum, l’indomito eroe che con la morte si lancia nel gran mare dell’Ignoto, apprezzavo molto un paio di canzoni che non mancavo mai di includere nelle centinaia di raccolte (all’epoca si chiamavano compilation) che incidevano su cassetta – ah! altra preziosa madeleine! – i miei brani prediletti. Ma, oltre a quelle sensazioni precoci e acerbe, mi residuava poco altro.

Ora, invece, ora che posso contare sul favoloso strumento che conosciamo come “senno di poi”, un attrezzo taumaturgico che ho imparato ad adoperare con la perizia di un amanuense bibliofilo sepolto vivo nella biblioteca d’Alessandria, ora soltanto mi si schiudono prospettive nuove, messaggi subliminali, punti di vista trascurati, come se quel benedetto disco avesse tre giorni e non quarantasei anni fatti e compiuti. Ché, a questo proposito, va detto a mio discapito che quel disco ha esattamente due mesi e cinque giorni più di me, e ciò basti a testimoniare la sua eterna giovinezza.

Ma passiamo agli esempi concreti. In generale, col senno di poi, posso riconoscere in Obscured by Clouds l’anima dei Pink Floyd che verranno, dove i Pink Floyd che verranno sono quelli di The Dark Side of the Moon, di Wish You Were Here e compagnia bella. È come se, dall’ascolto attuale, risultassero evidenti i sassolini che i musicisti hanno disseminato qui e là per tutto il disco, fosforescenze che rilucono nella tenebra per coloro che sapranno riconoscerle.

È altrettanto evidente che chi abbia ascoltato quel disco appena uscito, e quindi senza il senno di poi, non abbia potuto riconoscere un bel niente: un suono era un suono, una verso era un verso, e basta. Del resto è risaputo che è la storia a ingigantire un fatto, o un personaggio, la storia che è come la vita degli uomini: occorre tempo, per attribuire alle cose la giusta grandezza. Senza contare che di quei famosi sassolini non si erano accorti nemmeno gli stessi musicisti, quei Pollicini capelluti che allegramente li sparpagliavano in giro. Sono io che li sto vedendo baluginare, dopo mezzo secolo, e in fondo non so nemmeno se mi sto immaginando tutto.

Col senno di poi, per esempio, posso sentir riecheggiare nell’iniziale riff di chitarra della prima canzone (quella omonima, che fornisce il titolo al disco) le note, certo molto più lente, di una canzone gilmouriana di quindici anni dopo: la canzone è Sorrow, anno domini 1987.

Col senno di poi posso riconoscere che negli anni dopo When you’re in, seconda traccia del disco, solo In the flesh? ha replicato la stessa aggressività.

Col senno di poi, spingendola sull’azzardo, riesco a immaginare l’intro di Burning bridges come la trisnonna dell’intro di Pigs.

Sempre usufruendo di questo straordinario utensile (dopo aver riscontrato in Wot’s…uh, the deal lo stesso patrimonio genetico di Fearless) riesco a gettare un ponte che collega l’intro di organo di Childhood’s end direttamente all’intro di Shine on you crazy diamond, e i suoi ticchettii da orologio a quelli poi divenuti celebri con Time.

E ora mi rivolgo ai floydiani tutti: a quale altra canzone pensate, successiva a questo disco, se vi dico di indovinarne una che comincia con il pianoforte e il basso? In Obscured by Clouds si fanno le prove generali dell’intro di quella canzone celeberrima – ebbene sì, avete indovinato, proprio quella – con la bellissima e delicata Stay.

A proposito di Stay, ho il dovere di sottolineare l’assonanza dell’assolo di chitarra con quello che sarà proposto l’anno seguente in Any colour you like, e non lo dico solo perché si tratta dell’ennesimo luccicante sassolino del senno di poi, ma anche perché quella canzone fu l’ultimo brano interamente strumentale della formazione storica dei Pink Floyd (il successivo sarebbe stato Signs of life del 1987), e il solo a non riportare Waters tra i suoi crediti.

Ma grazie al senno di poi posso spingermi oltre: Obscured by Clouds, amici miei, è un disco che ha un cuore e un cervello, e vi dico perché.

Il cuore è Childhood’s end. La fine dell’infanzia. È il manifesto non soltanto del disco, ma di un’intera fase della carriera del gruppo. L’addio alla gioventù, alle sue ingenuità, e la preparazione al gran salto nell’ignoto dell’età adulta, come quello che compie il tuffatore di Paestum o il tipo che si intravede in copertina. Del resto è lo stesso Gilmour a cantarlo in Wot’s…uh, the deal: “’cause there’s no wind left in my soul / and I’ve grown old (perché non c’è più vento nella mia anima / e sono diventato vecchio)”.

E il cervello? Il cervello, come mi suggerisce il mio inseparabile compagno d’avventure, come al solito è Waters. E ti pareva, potrei dire, sempre col senno di poi. Ad ogni modo, il detto encefalo watersiano si esplica in una delle canzoni-fulcro di questo disco, che è Free four, al cui interno è enunciato il manifesto dell’intera poetica futura dei Pink Floyd (qui intesi come longa manus dell’egolatria accentratrice del tiranno di Great Bookham): “And you are the angel of death / and I am the dead man son / He was buried like a mole in a foxhole … (E tu sei l’angelo della morte / e io sono il figlio dell’uomo morto / che fu sepolto come una talpa in una trincea …)”. È abbastanza evidente come, per la prima volta nella sua vita musicale, Waters alluda a quel padre morto in guerra che sarà destinato a segnare buona parte dell’esperienza successiva della band.

Come curiosità, posso segnalarvi che Waters non è uno che parla a vanvera. Mai. Se nel 1972, in Free four, a proposito di volpi, si chiede minaccioso “And who is the master of foxhound? (E chi è il capo della caccia alla volpe?)”, eccolo lì, oltre trent’anni dopo, a manifestare il suo disgusto per quello sport tanto amato oltremanica. Come per dire: lo sto ancora cercando, ma se lo pizzico…

* * *

Col senno di poi, in buona sostanza, posso concludere che niente nasce dal nulla: la vita si ricicla come può, e appena ne ha la possibilità, e lo stesso facciamo noi, tutti, artisti e manovali, tassisti, sognatori, disoccupati e poeti, perché cuore e cervello sono fatti per tutti della stessa materia, si tratta soltanto di trovare i propri tratti distintivi e magari preferire il rosso al blu o il sale allo zucchero, o amare un disco come Obscured by Clouds che molti considerano superfluo, e che invece è malinconico come una sera d’autunno, nostalgico come una festa tra vecchi amici, e con il dono insuperabile di saper guardare fuori dalla finestra, nel buio, e veder brillare lontanissimo l’astro nascente del futuro. E senza senno di poi.

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